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Tecla camminava per i vicoli di Palermo come se li avesse partoriti lei. Non era solo fame di pane, era fame di vita. Il corpo le si muoveva davanti a tutto, fianchi larghi e seni pesanti che urlavano ancora giovinezza anche se la miseria glieli stava già rubando.
I suoi passi erano un insulto al mondo: scalza, con i piedi sporchi di polvere e catrame, eppure con l’aria di una regina che si concede solo se vuole.
Gli uomini la guardavano e abbassavano gli occhi. Le donne la maledivano. Lei rideva, quella risata sporca, che puzzava di vino e saliva. Non era una santa, non era una puttana: era carne viva che non si lasciava mettere il guinzaglio.
Loris la trovò così, con la camicetta slacciata sul petto e i capelli sciolti, neri e bagnati di sudore. Lui la guardò con quel sorriso da cane randagio, senza pensieri, senza futuro, solo con la voglia di farla sua e sparire.
“Hai due gambe che sanno la strada,” le disse, con la voce roca di chi ha già bevuto troppo.
Tecla lo scrutò come si guarda un coltello: bello, affilato, ma pericoloso.
— “E tu hai le mani vuote,” rispose. “Non stringono niente. Non mi fotti, Loris. Io non sono roba da mettere in tasca.”
Eppure si misero insieme. Lei gli dava il corpo come si dà una bestemmia, a denti stretti e occhi aperti, e lui prendeva tutto senza promettere un cazzo. Non c’era amore, c’era un gioco di morsi, di graffi, di sudore che odorava di fame e di paura.
Ma la notte, quando Loris dormiva con l’alito pesante, Tecla restava sveglia. Guardava il soffitto e pensava che nessun uomo l’avrebbe mai avuta davvero. Perché lei era fatta di pelle e di ossa, sì, ma anche di vento. E il vento non lo chiudi in un letto.
@G.L. Giugno 2024